A partire dagli anni ottanta, con la cosiddetta “svolta relazionale”, tutte quelle scuole di pensiero accomunate dal fatto di considerare come elemento fondante della vita mentale degli individui non più le pulsioni di freudiana memoria bensì le relazioni con gli altri sono idealmente confluite in un’unica grande corrente chiamata “relazionale”.
Questo nuovo paradigma integra la psicoanalisi interpersonale (H. S. Sullivan), orientata all’esplorazione delle interazioni interpersonali, con la teoria delle relazioni oggettuali (M. Klein, D. W. Winnicott, W. Fairbairn), il cui principale oggetto d’ osservazione sono le interiorizzazioni delle relazioni con gli altri significativi.
Per il modello relazionale è centrale il presupposto che la personalità di un individuo si sviluppi in base ad una particolare “matrice” che si viene a costituire fin dalle primissime interazioni con le figure di riferimento primarie. Di conseguenza la relazione che si viene ad instaurare con il terapeuta assume un ruolo fondamentale. È attraverso una nuova esperienza, “l’esperienza della buona relazione”, che il paziente potrà intraprendere il cammino che porta al cambiamento. Il terapeuta lascia i panni dello specchio neutrale per entrare senza pregiudizi nello scambio con il paziente. A differenza della psicoanalisi classica che voleva il terapeuta neutrale, quasi trasparente, per dare al paziente la possibilità di proiettare i propri conflitti inconsci, la psicoanalisi relazionale vede nella soggettività del terapeuta lo strumento fondamentale ed imprescindibile per promuovere il cambiamento nel paziente.
Un’altra differenza sostanziale tra teoria relazionale e teoria classica è il modello motivazionale. La psicoanalisi freudiana, infatti, descrive un modello di uomo in balia delle pulsioni tese a soddisfare gli istinti sessuali innati e biologicamente predeterminati. Il confronto con la realtà e l’impossibilità di soddisfare tali istinti sarebbe l’ humus di cui si nutre la nevrosi. La motivazione che sta alla base dell’ “uomo relazionale” è, invece, la relazione. Ogni individuo, in base al proprio bagaglio di esperienze relazionali con gli altri significativi (i caregiver) e in base a come essi hanno risposto alle richieste e soddisfatto i suoi bisogni primari, ha un sistema di credenze ed aspettative riguardo alle persone con le quali crea dei legami. In base a questo assunto, le persone tentano, perciò, di rimettere in atto anche nelle nuove relazioni i pattern relazionali appresi nell’infanzia, sia che essi siano stati buoni, anzi “sufficientemente buoni”, sia che siano stati poco buoni o addirittura traumatici.
La terapia diventa un incontro tra due esseri umani entrambi portatori di un bagaglio di esperienze interpersonali e capaci di profondi stati soggettivi. Entrambi portatori di fantasie, pensieri e sentimenti. Spetta però all’ analista il compito di individuarli e riconoscerli nel paziente come in sè stesso per poterne fare un buon uso terapeutico.
Bibliografia
Marco Conci, “Sullivan rivisitato. La sua rilevanza per la psichiatria la psicoterapia e la psicoanalisi”, Massari editore, Bolsena (Vt), 2000.
Diego Garofalo, “L’esperienza della buona relazione”, Borla, Roma, 2011.
J.R. Greenberg, S.A. Mitchell, “Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica”, Il Mulino, Bologna, 1986.
Irwin Hoffman, “Rituale e spontaneità nella situazione psicoanalitica, Astrolabio”, Roma, 2000.
Stephen A. Mitchell, “Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività”, Raffaello Cortina, Milano, 2002.
Vittorio Lingiardi, Gherardo Amadei, Giorgio Caviglia, Francesco De Bei, “La svolta relazionale”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011.
D. W. Winnicott, “Dalla pediatria alla psicoanalisi”, Martinelli, Firenze, 1975.